Dedicato ai credenti

Dedicato ai credenti
 
La fede è quel credere che guarda al futuro alla luce di una promessa ricevuta nel passato. Più o meno in tutte le esperienze religiose, Dio, ancora prima di essere, accade – si manifesta. A noi umani «non è dato di congiungere l’inizio con la fine», siamo posti cioè in una dimensione che non dominiamo e che è lo spazio del divino. Dio esiste almeno per quel tanto che gli uomini hanno creduto e credono in lui, assumendo Dio come quel nome che l’umanità ha dato allo scarto tra l’infinito e il limite in cui è da sempre posta. Credere significa riporre fiducia in qualcuno che sembra credibile, che promette agli uomini qualcosa a cui essi non hanno accesso in forza di se stessi.
Ho preso in prestito dal filosofo Salvatore Natoli questa riflessione per aprire ad un argomento che è molto presente fra i luttuanti, non solo coloro che patiscono in seguito ad una morte pre e perinatale.

Perché Dio mi ha fatto questo? – si chiedono.

Molti non trovano più appiglio in quella credenza che li ha rassicurati su un ordine ‘giusto’ e benevolo, a patto di comportarsi bene.
Ecco che la fede vacilla.
E per le persone che hanno da sempre sperimentato l’equilibrio in questa dimensione chiamata ‘vita’, grazie alla convinzione di una presenza costante accanto a loro, già manifestata in tutte quelle occasioni che si sono risolte per il meglio, senza averne mai sperimentate di davvero gravose al punto da compromettere la loro identità, è un dramma nel dramma.
Non sono solo in lutto, si sentono dolenti, abbandonate, tradite, terribilmente sole ed esposte.

Dio non ci dà dolori che non sappiamo sopportare.

Più o meno con queste parole qualcuno giustifica il comportamento di Dio, senza crederci molto in realtà, piuttosto per scacciare dalla mente l’immagine di Dio, distratto dal suo compito di proteggerlo – perché quello stipulato con lui è un patto: l’umano fa il bravo, in cambio Dio lo fa passare più o meno indenne da questa vita, fino ad una morte dolce e poi il Paradiso, nevvero?
Immaginarlo scientemente a decide che sia giunto il tempo per l’umano di patire, è troppo, anche se talvolta accade.
David Le Breton offre questa considerazione:
La tradizione cristiana assimila il dolore al peccato originale, ne fa un dato ineluttabile della condizione umana. Questa non è una punizione (…). Il dolore non è un castigo divino inflitto ai meno meritevoli degli uomini, non è conseguenza del peccato o di una macchia, ma l’opportunità di partecipare alla sofferenza di Cristo sulla croce. L’accettazione del dolore è una forma possibile di devozione che avvicina a Dio e purifica l’anima. (…) Il cristianesimo mette l’uomo in posizione di accoglimento della sofferenza. (…) Il dolore diviene anche una forma di elezione, un onore personale. (…) L’uomo di fede accetta la sofferenza che lo strazia perché le attribuisce un significato e un valore. La percepisce come una prova mandata da Dio per migliorarlo.
Spero che queste riflessioni aiutino a sbloccare chi si sente perso, affinché ritrovi la sua strada: avere fede in Dio è un dono, lo dico da donna priva di quella fede.

Dio è capace di rispondere a tutte quelle domande che come esseri umani non possiamo evitare di porci, indicando una strada collaudata da ormai migliaia di anni.

Tuttavia, non possedere quella fede, non pregiudica affatto il buon esito di un lutto o il superamento di altre sofferenze insite nel percorso di vita, semplicemente si intraprende un cammino differente. Io ne sono la prova provata 😉

Classificazione: 5 su 5.

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