Il Prigioniero della Luce

Il Prigioniero della Luce

Danilo Poggiogalli è autore de Il Prigioniero della Luce, libro di poesie che affronta un tema particolare, anche perché non siamo abituati a sentirlo narrare da un uomo.

Danilo non è solo poeta, in lui abitano molti ruoli fra cui quello di padre in lutto; un padre come ce ne sono molti, costretti al silenzio e lasciati in disparte quando si tratta di lutto perinatale.

Danilo è papà di due bimbi, uno dei quali si chiama Valerio.

Valerio è nato prematuro l’11 marzo 2023 a seguito di un distacco della placenta. A un mese di vita è stato sottoposto a un intervento di ileostomia. Una settimana dopo, il 18 aprile, è morto per choc settico senza essere mai uscito dall’ospedale.

La delicatezza con cui Danilo descrive i suoi vissuti, mentre deve salutare per sempre suo figlio, è disarmante, allo stesso tempo è di grande ispirazione, poiché riesce a concatenare magistralmente parole che danno forma a quei pensieri che i genitori in lutto spesso fanno fatica a raccontare a loro stessi.

Continuare a parlarti

Oggi non ti ho parlato

un giorno in piena


mi ha trascinato via

come un detrito

fino all’estuario

di questa notte amara


ma è di notte che gli occhi

mi si accendono di te

quindi ora ti sto parlando


e parlarti mi rischiara

i pensieri e scioglie


molti nodi non tutti


ma basta per vedere solo te

senza la lente deforme

dell’io e del pianto

per tenerti al caldo


di questi occhi quasi asciutti

che bruciano di te


finché ti parlo.

INTERVISTA ALL’AUTORE DANILO POGGIOGALLI

Danilo ci regala un poco del suo tempo e ci permette di avvicinarci alla sua storia per farne tesoro.

Abbiamo pensato di porgli qualche domanda per conoscerlo meglio e scoprire il suo lavoro, perciò ora vi lasciamo alle sue parole.

Come emerge Il Prigioniero della Luce?

Il Prigioniero della Luce emerge dalla necessità di affrontare a viso aperto il dolore, cercando nelle parole una via per conoscerlo e definirlo, cosa che sentivo mi avrebbe aiutato a renderlo più tollerabile.

Quando ho cominciato a scrivere le prime poesie che poi sarebbero confluite nel libro, Valerio, il mio secondo figlio era nato da poco e la sua vita era appesa a un filo. Si trovava nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Umberto I di Roma, seguito con ogni attenzione dagli operatori di quella struttura.

Malgrado fosse nato di sole ventotto settimane a causa di un distacco della placenta che aveva rischiato di uccidere sia lui sia mia moglie, le sue condizioni non potevano definirsi disperate: pesava un chilo e trecento grammi e il suo indice di Apgar era buono (5.9).

Erano passati pochi giorni quando, proprio mentre rincasavo dall’ospedale dopo una giornata che mi aveva riempito di speranza, mi chiamò una pediatra informandomi che si sospettava una perforazione all’intestino e che probabilmente l’indomani Valerio sarebbe stato operato. Non fu così, la perforazione non c’era ma quella notte non lo sapevo e, con accanto il suo fratellino di quattro anni, piangendo scrissi una strana preghiera a Valerio, in cui gli chiedevo di «non donarci la saggezza», la «coscienza del buio», e di lasciarci invece «imperfetti, rivedibili» ma in compenso ignari di un dolore così immane come quello che si stava profilando minacciosamente sulle nostre teste.

Il giorno dopo scrissi un altro testo, in cui dicevo esattamente il contrario: che sapere è sempre preferibile rispetto al non sapere, che aprire gli occhi davanti alla realtà, per quanto oscura e spaventosa questa possa essere, è sempre meglio che chiuderli. Nel libro sono presenti entrambe le poesie a integrarsi, a contraddirsi, l’una con l’altra: da una parte c’è il bisogno naturale di difendersi dal male, dall’altra il valore della consapevolezza.

A questa dialettica fra luce e buio sembra alludere anche il titolo. Chi è il Prigioniero della Luce?

La luce a cui si allude nel titolo non è la stessa luce della tradizione cristiana, quella cioè che simboleggia la fede, capace di trionfare sulle tenebre. Non c’è nulla di soprannaturale o di salvifico in questa luce. Ma non si tratta nemmeno della luce della tradizione illuministica, intesa come conoscenza razionale e positiva del mondo, quella a cui mi sento per ideologia più incline ma che di fronte alla morte di un bambino si rivela altrettanto insufficiente.

Nel titolo si trova una delle tante ambivalenze del libro: Il Prigioniero della Luce è mio figlio, che «è venuto alla luce per non vederla mai», finendo per essere prigioniero della sua nascita, una nascita che non si è fatta vita. Da questa prigionia non siamo riusciti a liberarlo.

Con quale intenzione, ad un certo punto, hai deciso di pubblicare la tua opera? Nel tempo si è modificata? Se sì, come?

Sì, nel tempo si è modificata. Ma ha cominciato a farlo ancora prima di essere pubblicata, già mentre la elaboravo. È stata a lungo un modo per continuare a parlare con mio figlio, a tenerlo con me: chiunque ci sia passato sa di che cosa sto parlando. Nonostante la mia avversione per ogni forma di superstizione, ho coltivato anch’io il pensiero magico descritto da Joan Didion, le attese di impossibili ritorni o epifanie, i viaggi nel tempo con la mente, le suggestioni della natura. Disposizioni d’animo che possono apparire suggestive dal punto di vista letterario ma niente di più. Me le sono perdonate come mi perdono – perché càpita ancora – quell’illusione di dialogo tra i vivi e i morti che si impara a scuola nei versi di Foscolo o di Pascoli.

Poi il libro è diventato qualcos’altro. È successo quello che credo succeda sempre nel momento del lutto: se ti focalizzi sul dolore che provi, finisci per focalizzarti su te stesso. Ma questo è tipico anche della poesia: i poeti parlano sempre di sé stessi. Dunque l’ho fatto anch’io, solo che ho cercato di farlo senza cadere nel patetico, sforzandomi di raccontare in modo lucido più quel che vedevo che quello che sentivo. E quello che vedevo era la storia della morte di mio figlio che si svolgeva davanti ai miei occhi, il dolore e la solitudine di mia moglie, il mancato incontro del primogenito con il fratellino.

Quando l’ho pubblicato, l’intento era quasi soltanto letterario: finalmente ero riuscito a creare, non una raccolta di poesie, ma un libro di poesie. E questo perché l’opera ha una compiutezza che le cose che avevo scritto in precedenza non avevano. Ho sempre considerato questa compiutezza come una sorta di dono che mio figlio, suo malgrado, mi ha fatto. Il dono, quasi l’imposizione, di scrivere.

Ho detto quasi soltanto perché non potevo ignorare il fatto che un libro con un tema del genere avesse anche delle implicazioni, per così dire, “civili”. Che rappresentasse cioè una testimonianza in cui gli altri potessero riconoscersi.

Nei mesi successivi all’uscita del libro, questa funzione ha preso il sopravvento su quella poetica: nelle presentazioni e negli incontri pubblici, il bisogno di condividere la mia storia personale, di metterla a disposizione degli altri in modo da contribuire alla sensibilizzazione sul tema del lutto perinatale, si è rafforzato sempre di più. Al punto di diventare una forma di impegno a cui non posso – e non voglio – sottrarmi.

Pensando di poter raggiungere altri papà con una storia simile alla tua, che messaggio lasceresti loro?

Il lutto perinatale non riguarda solo le mamme ma anche i papà. Partendo da questa considerazione che può sembrare banale ma non lo è, è bene che i papà si sentano direttamente coinvolti da questo tipo di eventi. Visto che tutto ciò che ruota attorno alla gravidanza viene di solito percepito come una materia di pertinenza femminile, un papà colpito da lutto perinatale può pensare di non avere diritto alla sofferenza, finendo per soffrire due volte. Per cui non si deve autoescludere, ma al contrario deve tentare di dare una forma al proprio dolore, anche per poter dire alla sua compagna: «Ci sono anch’io». Esserci ed esserci insieme è il primo passo per aiutarsi a vicenda e per sentirsi meno soli nel dolore.

Il Prigioniero della Luce

Pubblicato per la prima volta l'11 ottobre 2024

Commenta