Noemi: «Una mia cara amica è in crisi: ha abortito spontaneamente qualche mese fa. Era all’inizio della gravidanza eppure… è sempre molto triste. Non so proprio cosa dirle, come comportarmi: sono in difficoltà!»
Sofia: «La tua amica è in lutto. Così si chiama questa sua tristezza: è il dolore che provoca la morte di qualcuno. A lei è morto un figlio.»
Noemi: «Ma non è esagerato tutto questo malessere per una cosa così? In fin dei conti non era nemmeno nato…»
Sofia: «Per la tua amica quel figlio non è un figlio perché lo ha visto fuori dalla sua pancia, è un figlio perché era dentro la sua pancia. Ogni figlio è tale da quando è dentro, da subito… anche se fuori non fa in tempo a vivere. Lo è perché coi figli si instaura un legame fin dal concepimento: della loro presenza lo sa il corpo, che attiva il sistema immunitario per consentire l’annidamento; lo sa il sangue, dentro cui scorrono gli ormoni della gravidanza; lo sa il cervello, che registra il cambiamento e da le istruzioni adeguate per quella situazione, e quando la mamma ne ha certezza, ormai il legame c’è. Non tutte le donne lo avvertono nello stesso modo e non tutte le donne lo investono dello stesso significato, tuttavia, quando una donna sente di essere la madre di quel figlio, a qualunque epoca lui muoia, lei ha perso suo figlio e vive il lutto.»
Noemi: «Sì, beh… però ormai sono passati mesi… e questo ‘figlio’ è vissuto poche settimane: com’è possibile che soffra ancora?»
Sofia: «Vedi, il tempo nel lutto perinatale si misura in un altro modo.
Quando sei in lutto non conti il tempo che è stato, ma conti il tempo che non sarà più: alla tua amica occorre tempo per abituarsi all’idea che, per tutto il resto della sua vita, non condividerà più un solo momento con suo figlio.»
Noemi: «Ho capito. Eppure penso a quelle famiglie che perdono i loro figli ad un passo dal parto o addirittura appena nati, o, ancora peggio, già grandicelli… Ecco, mi pare che il loro soffrire abbia più senso…»
Sofia: «Vedi, il dolore non è una gara a chi ne patisce di più. Il dolore è dolore, punto. Non fa meno male perché, per la nostra scala di valore qualcun altro patisce un dolore più grande. Il dolore della tua amica è il suo dolore e tu non puoi sapere quanto sia grande. Immagino molto da ciò che mi racconti e non diminuirà anche se tu ritieni che ci sia chi sta peggio. Lei sta già nel suo peggio.»
Noemi: «Allora che cosa dovrei dirle? Come mi comporto?»
Sofia: «Potresti cominciare con lo spostare il punto di vista: non pensare a lei contando il tempo che ha trascorso con suo figlio, giudicandolo troppo poco per essere in lutto. Piuttosto pensa a lei contando tutto il tempo che non avrà mai più con suo figlio. Vedi, è un po’ ciò che accade quando muore un genitore molto anziano: la società pensa che i figli non dovrebbero dispiacersi troppo, in fin dei conti il genitore è vissuto tanto con loro, cos’hanno da lamentarsi? Ma i figli non pensano a quanto il loro genitore sia vissuto, loro sentono che nel presente non c’è più e, proiettando loro stessi nel futuro, devono rivedere tutte le situazioni immaginabili sforzandosi di non includere più la loro mamma o il loro papà. Riesco a rendere l’idea di come la prospettiva per chi è in lutto e chi non lo è, sia differente?»
Noemi: «Credo di capire.»
Sofia: «Tieni presente anche questo: chi non è in lutto ha generalmente il bisogno di mantenersi in una situazione di benessere, dunque troverà tutte le strategie possibili per evitare di stare male e a volte tenderà a non riconoscere il dolore negli altri, o a negarlo e banalizzarlo, anche se è evidente. Così possiamo ritenere la morte del figlio di un’amica meno grave di quanto sia, pensando che sia vissuto troppo poco affinché si soffra della sua mancanza. Lo diciamo a noi stessi nel momento in cui sentiamo inermi di fronte al dolore della nostra amica. Insomma, ci proteggiamo dalle nostre stesse emozioni, dal nostro sentirci impotenti e dalla nostra paura della morte e del dolore. D’altra parte la nostra amica non può evitare di mostrare il suo dolore, perché è solo così che può attraversarlo: vivendolo. Quindi anche condividendolo. Senza condividerlo non lo può vivere, pertanto resterà congelato, enorme e sempre più grande.»
Noemi: «Allora lei ha proprio bisogno di essere triste e che io le permetta di esserlo… ma cosa le dico?»
Sofia: «Lei ha bisogno di te. Non devi dirle nulla di particolare, ma farle sentire che con te è libera di tirare fuori quel dolore, finché ne avrà. Tu lo terrai un po’ insieme a lei e basta. Il lavoro grosso lo fa lei… Il tuo lavoro grosso è lasciarglielo fare più liberamente possibile.»
Noemi: «Ho capito. Cavolo però, se penso che lei sta cercando di accettare che quel suo figlio non potrà mai conoscerlo… beh… non deve essere facile.»
Sofia: «No, non lo è. Però avere un’amica come te è un dono prezioso. »
Novella ed Erika, Dialoghi sparsi sul lutto perinatale (2018)