Quando si parla di lutto, non si può evitare di parlare di memoria.
I ricordi sono il vero patrimonio che resta del defunto.
Ricordi buoni e meno buoni.
L’inflessione della voce, quel sopracciglio alzato proprio su quel pensiero, il modo di fare una certa cosa, l’idea rispetto ad un argomento, l’atteggiamento in una certa circostanza.
I ricordi vengono dalla vita trascorsa insieme, dal tempo passato insieme e dalle esperienze condivise.
I ricordi possono essere talmente vividi da far sembrare ancora qui, chi non c’è più.
Cioè, si può sentire forte la presenza di quella persona, ma attenzione, come dice Francesco Campione:
Non bisogna cadere nella trappola che essere presenti voglia dire essere vivi.
I morti sono morti, tuttavia morire non significa dissolversi nel nulla, come se mai fossimo esistiti.
Ecco che la memoria ci tiene in connessione con chi abbiamo amato, anche se non c’è più.
Questo processo, nel caso di lutto perinatale, sembra essere più difficile perché non si è fatto in tempo a costruire l’esperienza condivisa, così come siamo abituati a pensarla.
Spesso i figli muoiono dentro la pancia, talvolta non riusciamo a sapere nemmeno quali fossero i lineamenti del volto, il più delle volte non abbiamo udito la voce, ci manca una vita fuori dal grembo.
La mancanza di memoria autorizza la società a ritenere che quella creatura non abbia avuto il valore di un figlio, per noi. Autorizza a non cedere al dolore della morte, una sofferenza che, anche se non ci tocca da vicino, ci ricorda che siamo destinati a quella sorte e, in un modo o in un altro, ci tocca comunque.
Nel lutto perinatale, questa apparente assenza di memoria, tende a mantenere i dolenti legati all’unica cosa che sembra essere rimasta di quel figlio: il dolore per la sua morte.
Così non è rara la difficoltà a lasciare andare la pena, temendo di abbandonare e rinnegare quel figlio.
Ogni persona in lutto perinatale ha ricordi al di là del dolore ed è importante riuscire a valorizzarli, perfino a costruirne altri, anche post mortem, autentici.
Io non ho ricordi delle mie figlie, come siamo abituati a pensarli: non ho un volto, non ho una voce, non ho il calore di un abbraccio, non ho nulla che sia fuori dal grembo.
Però sono piena di ricordi: ho la gita fuori porta, dove ho mangiato a stento per via delle nausee e la presenza di quella figlia forte e chiara! Ho i giorni sulla neve, durante i quali ho evitato di scivolare dai pendii con il disco, per non rischiare di mettere in pericolo l’altra mia figlia, la cui presenza era forte e chiara! Ho le foto di tanti altri momenti, ho le ecografie e ho – cosa più importante di tutte – il ricordo della mia connessione con loro. Le coccole, le dormite, le nostre chiacchierate, il confronto con loro sulla scelta del loro nome, le richieste accorate di quiete dalle nausee.
Ho la sepoltura.
Ho un posto, per quanto non mi piaccia, in cui pensarle, oggi.
Ho un pezzo di vita che so con certezza di avere condiviso con loro.
Ho anche un sacco di cose che non ricordo più e non mi sforzo di ricordare, perché ciò che conta davvero, so che non lo potrò perdere mai.
Ciò che non ho è il dolore.
Quello non l’ho più, perché le mie figlie sono state tanti sentimenti, anche contrastanti, ma non dolore.
Quello è venuto dalla morte, che hanno subito anche loro, insieme a me.
Eh sì, la morte porta dolore. Il dolore di un amore che cambia bruscamente forma, che necessita di imparare a ‘compiersi’ in un altro modo. È un dolore che richiede pazienza, tempo e creatività.
È un dolore che non deve per forza restare vivo, può essere accompagnato all’uscita, senza timore di perdere qualcosa, bensì con la convinzione di riacquistare se stessi, arricchiti dalla ‘presenza’ di chi non vive più.