Aveva tutta la vita davanti…
In realtà noi non sappiamo quanta vita abbiamo davanti, sappiamo che siamo, ora; siamo stati, ieri; ci aspettiamo d’essere, domani.
Ce lo aspettiamo come fosse una certezza.
Da viventi conosciamo il vivere e per noi il vivere è il valore massimo.
Alla vita dobbiamo cose.
Per la vita ci adoperiamo.
Pur di vivere, talvolta, sopportiamo l’inimmaginabile.
Perché più della sofferenza, incombe la paura dell’ignoto.
Al di là della vita c’è qualcosa che non conosciamo.
Non lo conosciamo, pertanto ci spaventa.
Se la vita per il vivente è il valore, la morte per il vivente è il disvalore.
Così morire è una tragedia e solo quella.
È una sconfitta, una negazione, un fallimento, un rimpianto…
Tuttavia sarà il destino di noi tutti, quello di morire, cioè, ad un certo punto, dovremo cedere al disvalore. L’ultimo atto di una vita vissuta nel pieno del suo valore, è comunque il suo opposto.
Esiste il rischio concreto di vanificare un’intera esistenza per il solo fatto d’essere morti!
Perché il vivere conta, il morire non serve.
Il morire tradisce ciò che conta. Come se questo nostro passaggio qui, fosse insieme l’inizio e la fine di tutto. Cioè, noi siamo questa manciata d’istanti e di occasioni, perlopiù perse, visto che ci toccherà quel disvalore che porterà via tutto ciò che non è stato e non sarà più.
Oppure.
C’è spazio per un “oppure”?
Certo che c’è… e te lo dice una non credente…
“Oppure” si trova in quello spazio tutto soggettivo nel quale ognuno di noi può trovare il suo equilibrio, in una esistenza che viene dall’ignoto (quindi in qualche modo un ignoto noi lo abbiamo già conosciuto, senza ricordarlo…) e va verso l’ignoto.
Sembra essere un passaggio, quello che stiamo compiendo qui.
Un passaggio che ha il valore che noi decidiamo di assegnargli.
Se il suo massimo valore è restare aggrappati a questo pezzo di realtà per un tempo più vicino possibile all’eternità, è facile che resteremo spesso delusi e affranti.
Se invece il suo valore risiedesse nel vivere pienamente questo attimo qui, proprio quello che adesso è già passato e ha fatto spazio a quello successivo, beh… allora ogni istante di cui abbiamo certezza conterrebbe il massimo possibile. Non sarebbe perso… Non è mai perso, in effetti.
Caspita… allora poco o tanto non è più importante!
Importa il come.
Resta il “come” non il “quanto”.
È come abbiamo amato e siamo stati amati, che conta, infatti un grande amore resta grande anche quando dura poco.
Conta l’intensità di un’emozione, non tanto la sua durata.
È sull’intensità che abbiamo margine, non sulla durata.
È su come desideriamo vivere che abbiamo un po’ di controllo, non tanto sul quanto vivremo.
«La sua esistenza mi ha arricchito la vita.»
Questo conta.
«Mi mancherà.»
Certamente.
«So d’averlo amato tanto.»
Ecco perché ti manca.
E l’amerai ancora. Perché il passaggio verso l’ignoto non porta via le emozioni. Chiede di trasformarle, non di sopprimerle.
“Oppure”, risiede in una domanda che cerca la tua risposta: desideri che la morte sia un disvalore, oppure qualcos’altro?