Il lutto ha un termine: Marica Spagnesi intervista Erika Zerbini
Dici che il lutto ha un termine. Sono qualcosa di diverso dal lutto quelle vite segnate da un dolore che sembra inesauribile e che perdura negli anni?
Quando un dolore sembra inesauribile probabilmente non è mai del tutto elaborato. Il lutto si intende esaurito quando una spinta vitale porta ad avanzare, quando la perdita è integrata nel quotidiano. Può capitare di avvertire ancora nostalgia o momenti di commozione, ma nella normalità ci si è ristrutturati. Non è raro un lutto complicato. È un tabù la morte in sé. Spesso non si ha il tempo e lo spazio per elaborarla.
“Il lutto ha un termine” suona un po’ come una sveglia, un incoraggiamento, una spinta ad uscire dal nostro dolore. Nessun lutto è inelaborabile?
Esatto. Siamo strutturati per elaborarlo. Se non ci riusciamo dipende da fattori come altri traumi pregressi, un tessuto sociale ‘inospitale’ e altri fattori.
Può essere confortevole o utile un lutto che si protrae per molti anni?
Scendere a patti con la realtà, cioè accettare che la persona che abbiamo amato non sia più parte della nostra vita, è molto difficile.Talvolta non si ha proprio la volontà di staccarsi definitivamente da lei, poiché si ha come l’impressione di dimenticarla, rinnegarla, sminuire la sua importanza. Si avverte come il rischio che quella presenza, un tempo di fondamentale importanza, cadrà definitivamente nell’oblio. Per ovviare a questi rischi una possibilità può rivelarsi quella di rimanere legati a lei attraverso ciò che ha lasciato, cioè al dolore per la sua morte. Il dolore diventa, esso stesso, la conferma che quella persona sia indimenticabile. Lei resta ed è ricordata. Tutti possono accorgersi che non si è dimenticato, poiché vedendo il dolore della persona in lutto, sono riportati immediatamente all’estinto.
Restare addolorati sembra essere un atto d’amore verso l’estinto.
La vita non potrà essere mai più bella allo stesso modo perché non è possibile condividerla con chi è venuto a mancare. Sentirsi nuovamente felici può sembrare un tradimento verso chi felice non può più esserlo, dato che è morto. Quindi restare nel dolore è utile a soddisfare una serie di bisogni. Nell’attraversare un lutto si possono sperimentare diverse fasi: negazione, rabbia, senso di colpa, depressione, finché non si trova un modo per scendere a patti con la realtà e quindi accettarla (Kübler-Ross, 1976).
Restare nel lutto dipende da noi?
Restare nel lutto dipende da diversi fattori. Dalle risorse personali, quindi da quella che viene chiamata ‘resilienza’, cioè la capacità di ‘fare i conti’ con le esperienze difficili della vita e ricavare da esse qualcosa che ci accresca, ci renda più consapevoli, ci permetta di entrare maggiormente in contatto con noi stessi. Qualcuno lo definisce ‘miglioramento’. Se questa resilienza manca è difficile trasformare il dolore. Così come se tutto intorno rema contro, cioè sminuisce, mette a tacere, non accoglie quel dolore, il fatto stesso di doverlo tenere sopito, ricacciarlo indietro, ne impedisce l’elaborazione.
Che durata hanno le fasi del lutto?
Le fasi non hanno una durata fissa, possono avvicendarsi una dopo l’altra o anche presentarsi contemporaneamente (Kübler-Ross, 1976). Secondo nuove ricerche, alcune di queste fasi possono non presentarsi affatto.
Le fasi da attraversare: non c’è il rischio che anche il lutto debba essere superato secondo uno schema rigido e che non necessariamente appartiene a tutti? Non c’è il rischio, inoltre, che si crei ansia o senso di inadeguatezza se ci si accorge che si è lontani da quel modello?
In generale il lutto provoca il dipanarsi di diverse emozioni. Non tutti vivono le stesse emozioni con la stessa intensità e nello stesso modo, ognuno di noi metterà in atto le sue personali strategie di difesa, quindi reagirà alla perdita a modo suo. Ciò che secondo me è molto importante sapere è che il lutto è un evento traumatico che fa parte della vita umana (Bulleri – De Marco, 2013). Cioè, noi siamo ‘attrezzati’ naturalmente per affrontarlo. Sapendolo, se ci si dovesse accorgere di fare molta fatica, oppure se si avvertisse la sensazione di non riuscire ad emergere dal dolore, anziché sostare in uno stato di sopravvivenza, si potrebbe scegliere di farsi aiutare a capire cosa trattiene nel dolore.
Tu dici che anche perdere il lavoro è un lutto o una separazione. Nei lutti combinati che si fa?
E’ un momento di forte stress. Sarebbe consigliabile poterne parlare con qualcuno. Ci sono gruppi di auto mutuo aiuto, associazioni, psicologi o counselor che possono accogliere la difficoltà di elaborare il lutto. Dipende però da come si sente il soggetto. Se avverte di fare molta fatica e non stare bene, allora rivolgersi a qualcuno è consigliabile. A volte basta poter mettere in fila le cose. Dare loro respiro, poterle dire.
In fila significa una alla volta?
Ogni trauma ha una storia che poggia nel passato e andrà a costruire il futuro. Sistemarli, dar loro un senso, offre un futuro migliore. Anche un presente migliore. Ma dipende sempre da noi, possiamo scegliere cosa fare di quelle cose: cosa tenere, cosa trarre, come farci trasformare. Dipende da noi. Chiedere aiuto quando ci si trova in difficoltà, è una scelta che va nella direzione di fare il meglio possibile, anche del peggio.
Supponiamo che questo non si faccia. Il lutto può autoelaborarsi? Il tempo può guarire?
Il tempo da solo scorre e basta. Tuttavia è nel tempo che la mente può elaborare i pensieri, le emozioni. Il lutto ha bisogno di tempo. Nel tempo è possibile abituarsi a vivere senza l’estinto. Non significa che il lutto sia elaborato e può capitare che riemerga in un momento qualunque o di fronte ad un altro trauma. Nella trasformazione noi siamo parte attiva: una parte attiva fondamentale (Bulleri – De Marco, 2013).
Come sapere se il nostro lutto è stato accantonato o elaborato?
Se non si sta bene è evidente che qualcosa non va. A volte è il corpo stesso a mostrarne i segni, anche dopo diverso tempo, anche se apparentemente ci si è abituati all’assenza. Gli esperti stimano che il tempo medio per elaborare un lutto vada dai 6 mesi ai 2 anni (Bulleri – De Marco, 2013).
Forse non si riesce ad immaginare la nostra vita senza la persona che abbiamo perso…
Chi resta nel lutto probabilmente non può o non riesce ad immaginare una vita senza la persona che ha perduto, forse perché sembra di tradirla, dimenticandola. Anche se non è possibile dimenticare chi abbiamo amato. È come restare nel rifiuto di quella morte. Viviamo in un’epoca in cui la morte è disdicevole. Qualunque sia il legame con l’estinto, la società offre un tempo per ‘rimettersi’. Per esempio osserva quanti giorni di permesso dal lavoro si possono chiedere per la morte di un parente stretto. Di solito c’è il funerale, condoglianze, telegrammi, poi basta. Devi ritornare attivo e produttivo. Non c’è spazio per il dolore e l’elaborazione (Sozzi, 2014).
La perdita di una persona che amiamo: quanto influisce nell’elaborazione del lutto lo status acquisito e perso in relazione alla presenza di quella persona? Quello che rappresenta per noi un figlio, ad esempio. Non tutti siamo mossi dalle stesse spinte. Se un figlio, ad esempio, rappresentasse inconsciamente una rivalsa, un bisogno d’amore che non abbiamo avuto e crediamo essere incondizionato o la necessità di superare un antico abbandono, la soluzione al nostro senso di solitudine, il nostro sentirci inadeguati, nell’elaborazione del lutto non si dovrebbe tener conto di ciò che, a catena, quel lutto, fa riemergere?
Tutto ha un ruolo: il nostro passato, i traumi pregressi, l’affettività sperimentata, le aspettative sociali, che spesso riconoscono il valore delle persone in base al ruolo specifico che rivestono. Basta pensare come sia idealizzato e stereotipato il ruolo materno: la vera donna, colei che esprime pienamente il senso d’essere al mondo, è la madre. Quante donne vivono un profondo senso di inadeguatezza, di disvalore e senso di colpa quando vivono un aborto o ricevono una diagnosi di infertilità? Come se non potessero aspirare ad essere vere donne quanto le madri.
Noi siamo un’equazione molto complessa. Ognuno di noi è un’equazione unica.
E’ riporre il nostro stesso senso in un altro essere umano che rende inelaborabile un lutto?
Si può anche avere consapevolezza di quanto l’altro sia importante per dare a noi senso, ma può non bastare riconoscerlo per uscire da quel dolore. Sebbene sia un primo passo per rielaborare un nuovo senso di sé. Il lutto è difficile da elaborare perché accettare la morte è difficile. È difficile accettare che noi esistiamo anche dopo gli altri, nonostante la loro morte. E’ difficile entrare in contatto con l’idea della nostra morte, fatto che la morte altrui richiama.
Per scendere a patti con la morte credo sia indispensabile trovarne il senso. Comprendere e fare proprio il fatto che morire faccia parte del vivere, che l’occasione di vita e il valore di quella vita non dipendono dalla quantità di tempo che ha passato sulla Terra e che il morire non toglie il significato di quella vita in chi le sopravvive. Spesso non abbiamo scelta, siamo impotenti di fronte alla morte. Siamo umani. Accettarlo è indispensabile.
Se dovessi definire cosa sia per me elaborare il lutto, direi che è il processo con cui ho accettato l’Assenza, l’ho inclusa nel quotidiano, continuando ad apprezzare e godere di tutto quanto ho potuto condividere con chi è morto, senza rimpiangere quanto il suo morire abbia negato. Quindi nel presente e nel futuro il mio caro estinto è presente come ricordo di un passato ricco di significato, ma non c’è, poiché la sua nuova veste è quella di morto, quindi assente.
Dato che vivere non è eterno e la mia vita per me ha valore, il meglio che posso fare per darle senso, e quindi offrire senso alla mia morte, è di goderne a piene mani.
Tenere stretto il meglio, come un dono per nulla scontato e sfruttare il peggio per entrare in contatto con nuove parti di me e accrescere quelle risorse che mi permettono di rendere la mia vita sempre più densa di significato.
Qual è la parte più difficile nell’elaborazione del lutto?
Per l’esperienza che ho sul tema della morte, ho notato che in generale la parte più difficile è quella di lasciare andare. Il timore di dimenticare e far cadere nell’oblio il defunto. Del defunto, ormai cancellato, si perderebbe il senso del suo essere stato in vita, il suo valore. A noi che restiamo è lasciato il testimone di tramandare le tracce dei nostri avi, quindi non si può andare troppo avanti senza il timore di lasciare indietro chi non c’è più. Tuttavia è solo dimenticando che è possibile ricordare, cioè collocare nel passato (Campione, 2012).
Qual è il ruolo della cultura cui apparteniamo?
La nostra è una cultura che evita la morte, sebbene ne enfatizzi la tragicità. Basta seguire un telegiornale: quando accade una tragedia ci raccontano la crudeltà dell’evento, fanno audience sulle lacrime, poi tutto si chiude e avanti con la successiva tragedia. Resta un vuoto enorme. Come si fa a superare? Quanti se lo chiedono e quanti restano col groppo in gola a dirsi: ‘Io non ce la farei’. Si chiama educazione.
Cioè, è possibile educare alla morte?
Sì. Educare alla morte significa questo: offrire strumenti, conoscenza, un po’ di verità. Per esempio, sento dire spesso che alcune morti siano innaturali, ingiuste, contro natura. Quindi è già insito nella loro descrizione l’impossibilità di superarle. Come superi una cosa innaturale? Non si muore mai perché si è vissuto, si muore sempre per colpa di qualcosa o qualcuno (Sozzi, 2014). Eppure la morte è in natura. In natura c’è ogni tipo di morte. Quella più o meno precoce, quella più o meno sofferente, quella più o meno crudele. Potremmo cambiare la comunicazione dicendo che certe morti siano più complicate da digerire per la loro natura crudele e sofferente, quindi offrire sostegno e supporto maggiore.
Quindi non si tratterebbe di una vera e propria scelta, quella di uscire o rimanere nel lutto a vita. Siamo condizionati.
Da quando la morte è scomparsa dai nostri occhi, reclusa in ospedale, da quando la medicina ha deciso, e le abbiamo dato, il compito di renderci immortali, la morte ha perso senso (Sozzi, 2014). Non se ne parla, poiché non c’è nulla da dire. Essa è la fine, il fallimento. Dei fallimenti non è piacevole discutere. La società ci condiziona certamente, ma noi possiamo ancora scegliere di non farci condizionare, di ascoltare quel che proviamo, di dare voce alle nostre emozioni.
In che modo l’educazione al lutto influirebbe sulla nostra vita?
Io sono convinta che ci si possa preparare alla morte e che si possano educare le generazioni future (Campione, 2012). Questo faccio a casa, coi miei figli. Ci prepariamo, ma viviamo! Perché la consapevolezza della fine ti fa godere enormemente più del qui e ora.
Inoltre il sentimento luttuoso non è legato solo alla morte di una persona cara. Esso viene sperimentato anche quando un legame affettivo si rompe (come una separazione), quando dobbiamo abbandonare l’idea che abbiamo di noi (come accade alla notizia di infertilità, per esempio), oppure quando le nostre certezze sono messe fortemente in pericolo (come accade quando subiamo un licenziamento, per esempio). Il dolore di una perdita può avere diverse origini e perciò siamo destinati tutti a sperimentare un’esperienza simile. Quando la realtà si mostra differente dalle aspettative, è necessario lasciare andare l’idea che avevamo e reinventare non solo il futuro, perfino il presente.
Penso che manchi la consapevolezza di essere noi stessi la parte attiva di questo processo. Noi abbiamo il potere di cambiare la nostra vita.
E’ vero che non abbiamo controllo su alcuni fatti importanti, ma noi possiamo scegliere quale impatto avranno su noi stessi. Con quale atteggiamento approcciare la vita e la morte, è una nostra scelta.
Ho la sensazione che molti dei nostri disagi dipendano dal fatto che restiamo imprigionati dentro un lutto di qualche genere: un abbandono, una perdita, un distacco violento: la si fa facile dicendo che in fondo è colpa nostra se non vogliamo andare oltre. Scegli di essere felice ed è tutto risolto?
La tua osservazione su come i nostri problemi derivino dal restare imprigionati in un lutto, mi ha acceso un collegamento. La prima grande, importante separazione della nostra vita è la nascita.
Se vuoi sapere che tipo di società hai di fronte, ti basta guardare come vengono al mondo i suoi componenti.
La nostra è una società in cui la nascita è industrializzata, medicalizzata, non rispettata (Odent, 2002). Sembra che noi non sappiamo più come si facciano i bambini: in effetti diciamo spesso frasi come: “Il dott. Tal dei Tali ha fatto nascere mio figlio”, quando quel bambino lo ha fatto nascere sua madre. Guardiamo i dati. In Italia c’è un tasso di parti cesareo abnorme rispetto alla media. Nel 2015 sono stati il 34% contro una media raccomandata dall’OMS del 10/15%. Anche questi dati raccontano una storia che dovrebbe essere guardata così: il parto cesareo è una pratica salvavita, se la media europea è tre volte inferiore alla nostra, ma in Europa il tasso di mortalità non è tre volte superiore, significa che da noi qualcosa non va. E infatti da noi qualcosa non va.
Quindi noi nasciamo “male” e questo ha ripercussioni sul nostro approccio futuro al dolore, al distacco, alla morte?
Nascere ‘male’ ha un impatto notevole sulla relazione madre/bambino. Il parto naturale (attenzione: naturale, non solo vaginale. Quanti parti avvengono per via vaginale, ma di naturale non hanno niente?) attiva tutta una serie di risposte fondamentali nella madre e nel bambino.
Durante il parto, l’ossitocina prodotta dalla mamma (solo quella prodotta naturalmente, non quella sintetica) entra nel suo sistema nervoso, agendo sul comportamento e sulle emozioni, favorendo, fra le altre cose, la fiducia, l’empatia verso il prossimo e l’imprinting. Se mamma e bambino sono messi a contatto pelle a pelle nella prima ora dopo la nascita, liberano ossitocina ed endorfine, che stimolano l’attaccamento e un innamoramento reciproco, duraturo.
Troppo spesso il nostro parto, cesareo o vaginale, ha tempi imposti, non è rispettato, è carico di sostanze chimiche che interferiscono o si sostituiscono a quelle naturali, non consentendo alla madre di essere libera e potersi abbandonare con fiducia ad un processo naturale per il quale è programmata. Il bambino, viene estratto, separato, il cordone tagliato ancora mentre sta pulsando, manipolato, studiato, osservato (Leboyer, 1975). Lasciato in una culletta da solo a piangere. Il contatto pelle a pelle nel parto vaginale è un po’ più facilitato, dopo il cesareo lo puoi spesso dimenticare, se non dopo almeno mezz’ora, ma anche un’ora.
La separazione impone la non risposta a bisogni fondamentali che non sono solo del bambino, ma anche della madre. In entrambi si insinua il germe dell’insicurezza, la paura, l’abbandono.
La separazione può produrre difficoltà ad allattare il bambino, quindi ulteriore insicurezza, senso di inadeguatezza in entrambi. Tornati a casa, mamma e bambino restano soli: non c’è più il villaggio intorno. La nostra è una società in cui i genitori di bambini piccoli sono abbandonati a se stessi in una cronica insufficienza di aiuto, come la definisce Bowlby (Bowlby, 1988). Il papà lavoratore dipendente, per legge, ha diritto a 2 giorni di congedo obbligatorio. Se è lavoratore autonomo nulla. Cosa sono 2 giorni? Lo chiamano obbligatorio nel tentativo di mostrare quanto le istituzioni siano vicine alle esigenze della famiglia, nel favorire la sua formazione.
In realtà il nostro stato non è a misura di famiglia. E’ ben lontano da avere al centro delle sue priorità il primo e fondamentale anello della società.
Il primo lutto è quindi alla nascita?
La nascita è separazione e distacco. Lascia una traccia fondamentale su cui non siamo abituati a riflettere. Perché è così, si fa così. Ma non è vero. Non si fa così. Non si dovrebbe fare così. Ormai è noto come i neonati siano competenti e portino memoria delle esperienze vissute già nel grembo della mamma, dunque non è difficile immaginare che ognuno di noi abbia registrato l’esperienza di quella prima separazione. Noi siamo il frutto delle esperienze che abbiamo vissuto, del modo in cui abbiamo reagito ad esse e di come le ricordiamo. Le esperienze più antiche, quelle dell’epoca pre e neonatale, sono registrate in una memoria detta implicita. Una memoria non verbale che raccoglie emozioni, sensazioni, percezioni sperimentate dal corpo e depositate nella parte più antica del cervello. La stessa che si attiva di fronte ad una situazione traumatica, offrendo un’immediata risposta di difesa (Bulleri – De Marco, 2013).
È verosimile pensare che di fronte al trauma di una separazione, reagiremo mettendo in atto tutti quei sistemi di difesa che abbiamo attivato in presenza della prima separazione.
Il dolore che proveremo, evocherà quel dolore sperimentato e registrato. Se saremo stati accolti, contenuti e rassicurati, se avremo ricevuto risposte ai bisogni tali da avere acquisito sicurezza e fiducia in noi stessi, cioè se la nostra base è sicura (Bowlby, 1988), allora avremo una dotazione emotiva migliore di coloro i quali non hanno sperimentato quella sicurezza e potranno fare quindi più fatica a stare ed elaborare una situazione di distacco persistente.
La società che abbiamo costruito porta all’isolamento. Quanto conta la comunità nell’elaborazione del lutto?
Gli esseri umani sono animali sociali. Abbiamo bisogno degli altri. Il lutto è un periodo che ha bisogno della società. Come la maternità o la malattia. In tutti e tre i casi entriamo in crisi perché il villaggio è scomparso. Abbiamo perso la famiglia. La base della nostra società non c’è più.
Che cosa fare per iniziare a lavorare su noi stessi e costruire quelle risorse che ci consentano di affrontare meglio il distacco, il lutto, la separazione, la morte?
Ciò che stiamo facendo qui è già straordinario! Contrariamente alle consuetudini, ne stiamo parlando. Con serenità e curiosità. Dicono che se non puoi vincere un nemico, allora dovrai cercare di fartelo amico… La morte è parte del processo di vita, il suo ultimo atto. Noi tutti la attraverseremo: è la nostra unica ineludibile certezza. Nel nostro percorso di vita certamente saremo costretti ad affrontare delle perdite. Parliamone.
Parlandone avremo l’occasione di mutare il nostro vocabolario, realizzare che la morte non è un fallimento, ma un processo naturale che ha addirittura un valore rispetto al nostro vivere.
Nessuna vita sarebbe tanto straordinaria se non fosse unica e se non avesse fine, ad un certo punto. Il morire offre senso profondo al vivere. E i nostri morti non scompaiono mai del tutto. Restano in noi come un patrimonio fondamentale. E’ anche grazie alla relazione che abbiamo stretto con loro che siamo ciò che siamo. Non c’è alcun pericolo che cadano nell’oblio. Anche se torneremo a vivere pienamente senza di loro, porteremo sempre con noi la trasformazione che la loro morte ci ha imposto. Quindi ancora è nel nostro patrimonio il fatto stesso che non ci siano più.
La morte è trasformazione di tutti: di chi va e di chi resta.
Curiosità:
Le lacrime di Feyja, tela erroneamente attribuita a G. Klimt, è opera della pittrice francese contemporanea Anne Marie Zilberman.
Freyja è una dea dela mitologia nordica: dèa dell’amore sessuale, della Bellezza, dell’Oro, della Seduzione, della Fertilità, del Seiðr, della Guerra, della Morte e delle virtù profetiche. Moglie di Óðr, per il quale soffre pene d’amore, poiché la lascia per intraprendere lunghi viaggi, costringendola ad infruttuosi inseguimenti, durante i quali si lascia andare a pianti di lacrime d’oro. Insieme al marito, mette al mondo due splendide fanciulle, dai nomi emblematici: Gǫrsimi e Hnoss, sinonimi di “tesoro”.