Stare nel lutto perinatale

stare nel lutto perinatale.

È una signora dal volto segnato, mi ricorda mia nonna, forse anche per quella cadenza della voce così familiare;

si avvicina sorridente, la sua mano cerca la mia: è la mano forte di una donna che ha lavorato e probabilmente non ha ancora smesso. Si accosta ancora più a me e, come mi stesse confessando un segreto, sussurra:

Sono state vite, quelle; noi lo sappiamo.

Noi lo sappiamo.
Chissà da quanto tempo stava aspettando qualcuno che sembrasse saperlo, come lo ha sempre saputo lei. Chissà da quanto avrebbe voluto raccontare di questa vita lasciata andare tanti anni fa, eppure così presente nel suo cuore, nei ricordi, nei rimpianti…

È una giovane donna, ha uno di quei visi a cui non so dare età, forse non ha ancora compiuto trent’anni.

È davanti a me con gli occhi pieni di lacrime:

È una cosa grossa, questa – sussurra – proprio grossa…

E lascia in sospeso tutto il peso della sua cosa‘ così difficile da raccontare anche a se stessa.

Andava tutto bene. Stavo bene, non sono mai stata meglio! Eravamo felici, avevamo superato il terzo mese: noi non avevamo idea che potesse accadere – prende fiato, abbassa lo sguardo, cerca il coraggio e lo dice – Ci hanno chiesto se volevamo seppellirlo, dargli un nome… ma no. No. Però è grossa questa cosa. Lo so che è grossa.

È una donna della mia età, folta chioma riccioluta, volto sorridente, luminoso: sei settimane.

Era di sei settimane quando lo ha perso, ma no, non ha pensato che potesse essere un lutto. Lo dice proprio col sorriso aperto.

Ero dispiaciuta, certo. Eh… però, insomma, solo sei settimane, ecco.

Si chiude nelle spalle e cambia discorso.

È una ragazza giovane, lunghi capelli castani, occhi grandi, che ne hanno già viste tante.
Ero minorenne. Mi hanno detto che sarebbe stato meglio così. Sapevo che non era vero. Però… però l’ho fatto. Eh… ormai l’ho fatto. Non si torna indietro. Ho la foto dell’ecografia e ogni tanto la guardo e lo saluto.

Poi fa una pausa, allarga il sorriso e conclude:

Non si torna indietro.»

E poi ci sono io, che non so se quella fosse una vita, ma so che per me lo è stata eccome!

Non solo lo è stata, anche l’ho convissuta, partecipata, sentita, amata. Lasciarla andare è stata una cosa grossa, eccome se lo è stata. Eppure non ho trovato una soluzione migliore, per me.
Per me… Solo per me.

Ecco perché questo lutto è tanto insidioso e particolare:

puoi parlare con cento persone e ascolterai cento storie diverse, se sarai aperto davvero all’altro, senza bisogno di sovrapporre la tua storia alla sua.

Ecco perché questo lutto è così faticoso da raccontare:

narrato il tuo, potrebbe essere stravolto, interpretato da chi lo ha ascoltato; narrato il tuo, potrebbe non essere compreso, tanto lontano da chi lo ha ascoltato; narrato il tuo, potresti non trovare nessuno capace di ascoltare, davvero.

Ecco perché questo lutto è tanto difficile da gestire:

è faticoso cogliere le differenze e immaginare strategie personalizzate, in un mondo che ha bisogno di conformare, protocollare, regolamentare, per ottimizzare, in nome dell’efficienza ché chi si ferma è perduto!

Invece qui c’è più che altro bisogno di stare nel lutto perinatale.

Stare con le mani dentro le mani della signora dal volto segnato, stare nelle lacrime della ragazza con la sua ‘cosa’ grossa, stare negli occhi luminosi della donna riccioluta, stare nel sorriso della ragazza che non può tornare indietro.
Poi, dopo, a casa, con calma, devo ricavarmi un tempo per recuperare la storia che ho narrato a me, così sto dentro al mio bisogno di lasciare andare e mi ritrovo.

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